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Perché proponiamo le opere tolkieniane nel nuovo millennio
J.R.R. Tolkien è stato un autore relativamente prolifico, la cui attività si è svolta prevalentemente (semplificando i calcoli cronologici) tra gli anni ’20 e gli anni ’60 del Novecento. Il terzogenito Christopher si è dedicato alla cura e pubblicazione degli scritti inediti dagli anni ’70 del Novecento fino al 2018 – per i dettagli, si rimanda alla sottosezione dedicata alle Note bibliografiche. Quindi, quando si parla del corpus letterario tolkieniano, ci si riferisce a un ciclo di scritti che ha avuto inizio sostanzialmente un secolo prima della stesura di questa pagina. Sorge dunque la legittima domanda: quali sono le peculiarità per cui, ancora oggi, leggere gli scritti tolkieniani risulta tanto piacevole quanto proficuo e portatore di ricchezza culturale?
Se si dà la frase “perché leggere Tolkien” in pasto a un motore di ricerca su Internet, si otterranno decine di rimandi a pagine di autori della più varia provenienza che propongono le loro motivazioni, spesso con la formula del decalogo – o analoghi elenchi, comprendenti tra i cinque e i venti punti salienti. Sovente si tratta di opinioni personali, impressioni soggettive e altro del genere: vi sono tuttavia alcuni argomenti ricorrenti che, a parer nostro, inquadrano alla perfezione il tema.
Fiaba e mito: narrazioni antiche ai tempi odierni
Tolkien dovette affrontare i primi pregiudizi sui suoi scritti già in prima persona. Nella sua lectio intitolata Beowulf: The Monsters and the Critics, edita in quattro occorrenze tra il 1937 e il 2002 (vedere sempre le Note bibliografiche), stigmatizzava l’atteggiamento di quei critici per i quali la presenza del mostro nell’epica fosse un elemento non di primaria importanza: quando poi uscirono Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, lunghi racconti fiabeschi seppure imperniati su un notevole impianto di natura mitologica, l’accoglienza da parte di certa critica fu anche più fredda. Come poteva questo autore, ancora agli albori di un successo e di una notorietà che col tempo avrebbero continuato a crescere, dare alle stampe storie fantastiche, ambientate in tempi e luoghi così lontani dal vissuto quotidiano dei lettori, con protagonisti tanto bizzarri quanto possono esserlo razze degne di un bestiario due-trecentesco, quando (almeno stando ai critici) un’opera narrativa per essere degna di considerazione doveva essere profondamente ancorata al realismo contemporaneo?
La fiaba, tipologia di narrazione che per secoli è stata un fondamentale mezzo di trasmissione della conoscenza anche presso fasce di popolazione che non avevano accesso agli studi, fin dai primi del Novecento aveva iniziato il mesto percorso che ne avrebbe fatto un intrattenimento riservato ai bambini e poco più. Il mito, da racconto delle origini di un popolo nelle sue forme teogoniche, cosmogoniche, eziologiche ed escatologiche, stava cedendo il passo alla pratica scientifica, che con le sue caratteristiche di ripetibilità e misurabilità si mostrava più legata al vissuto ordinario rispetto ad antiche storie collocate in un tempo indefinito e avulso dalla quotidianità. Ma i popoli europei del 2000 d.C., nel cui solco culturale s’inserisce l’operato del Tolkien fabulatore, sono pur sempre eredi della cultura classica, delle civiltà del Mediterraneo e di quelle nordeuropee, i cui miti sono stati e sono un retaggio imprescindibile.
J.R.R. Tolkien conosceva alla perfezione questi percorsi, avendone fatto oggetto dei suoi studi e della sua carriera professionale: ne aveva quindi seguito le orme in modo del tutto intenzionale, deciso a ricordare ai lettori del suo tempo che fiaba e mito non avevano affatto esaurito il loro ruolo nel contesto culturale del dopoguerra. Anzi, dopo la catastrofe che aveva sconvolto l’intera popolazione mondiale, ripartire dalle radici offriva la possibilità di ricostruire, prima ancora delle infrastrutture e dei servizi, il collegamento con le proprie origini e il ritorno nei binari della grande Storia che aveva avuto inizio millenni prima – e che, nonostante tutto ciò che era successo, non era affatto terminata.
Un autore e un’opera inequivocabilmente moderni
Si potrebbe obiettare che, dopo tutto, quei critici di cui sopra non avessero tutti i torti nell’etichettare come retrogradi dei “romanzi” che tutto sommato traevano fondamento da modelli narrativi così remoti. In realtà, le cose stanno così solo se ci si ferma all’apparenza e al primo sguardo: vale a dire, se non si considera qual è il ruolo dei “mostri” e delle creature “fantastiche” entro la cornice dei racconti.
In primo luogo, il ricorso al mito come tipologia narrativa è meno banale e più radicato nell’attualità di quanto si pensi. I miti, per esser tali, devono essere pura espressione della verità – certo, una verità raccontata per immagini e per figure più o meno ancestrali, ma pur sempre verità. Siccome l’atto del raccontare, in tutte le sue forme (dal mettere al corrente amici o parenti di quello che ci è successo la sera prima, fino ad argomenti più astratti come l’origine di sentimenti e sensazioni) equivale all’usare il linguaggio per fare in modo che chi ci ascolta percepisca le stesse visioni di chi parla, ecco che qualsiasi forma di racconto è una trasposizione della verità in “immagini”. Nel raccontare un’esperienza a un interlocutore, l’intento dell’oratore è che chi ascolta riveda e riviva quell’esperienza: il mito non è che una lente attraverso cui proiettare l’esperienza raccontata su un altro piano, ma senza che ciò la renda meno vera.
Tolkien credeva sia in questa forma di realtà trasmessa dai miti, sia nel fatto che la trasmissione della realtà avvenga per mezzo delle immagini che il linguaggio e il pensiero rendono reali, nel fenomeno della comunicazione. In quest’ottica, l’immagine di fantasia può avere pari dignità della realtà concreta: non a caso l’etimologia di “fantasia” è proprio far apparire, cioè dare vita (e quindi realtà) a qualcosa. Questo avviene, nei racconti scritti e orali, per mezzo del linguaggio: linguaggio che è, in ultima analisi, una forma comunicativa che contribuisce in modo netto a definire l’identità di un popolo. Dunque, mito e linguaggio sono sempre presenti nella quotidianità, sia pure in forme variabili. Non è dunque un caso che Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli siano espressione di miti e linguaggi e, come tali, siano parte integrante dell’esperienza di vita moderna.
L’altro aspetto di modernità degli scritti tolkieniani è costituito dal fatto che, per quanto mascherate dalle immagini di fantasia, esperienze e vicende narrate nei due titoli presentano marcati tratti novecenteschi. Come rimarcato da F. Manni nella sua prefazione alla traduzione italiana di Author of the Century di T. Shippey, saggio in cui il celebre studioso illustra proprio i caratteri di modernità dei due romanzi:
Gli Hobbit, creature “fantastiche” originali di Tolkien, entrano in contatto con Elfi, Nani, Antichi Demoni, Draghi, Stregoni, Re e Guerrieri, ma essi, gli Hobbit, sono comuni cittadini inglesi di età edoardiana, o borghesi (i Baggins) o proletari (i Gamgee), ma tutti sottomessi ai riti del tè delle cinque, del giardinaggio, della fumatina con la pipa, della birra al pub, tutti accomunati dall’amore per la tranquillità , la rispettabilità, la giovialità (cheerfulness). Gli Hobbit dovrebbero, a rigor di logica, essere contemporanei di civiltà guerriere medievali (di Aragorn, di Theoden, di Denethor) , ma in realtà, con plateale anacronismo, non possiedono armi, hanno un servizio postale statale per tutti, hanno un museo cittadino, gli orologi da muro in casa, gli ombrellini da passeggio per le signore. Sia ne Lo Hobbit sia ne Il Signore degli Anelli i protagonisti dei romanzi sono Hobbit. Nel primo romanzo lo hobbit protagonista, Bilbo (cioè il mondo del presente) , nel confronto con Nani, Elfi, Guerrieri etc. (cioè col mondo del passato) risulta vincitore : alle somme le sue virtù – e paradossalmente anche quella del coraggio – sono superiori a quelle dei rappresentanti del Mondo Antico. Nel secondo romanzo lo hobbit protagonista, Frodo, nel confronto con Nani, Elfi, Guerrieri etc. risulta alla pari : egli non avrebbe saputo nulla e non avrebbe potuto fare nulla senza l’intervento dei Personaggi Antichi e Medievali, ma, una volta che il Mondo del Passato lo guida e lo soccorre, egli compie le azioni più preziose per la salvezza di tutti e raggiunge le virtù morali più alte.
Successo senza segreti… e senza tempo
Dunque, i motivi per cui le opere tolkieniane piacciono a un pubblico che nel tempo continua a crescere e che, quanto a estrazione culturale, risulta gradito a una platea assolutamente trasversale e a tutto campo, non contengono nessun “segreto di bottega”: i motivi del successo sono tutti in bella vista e, fatto ancor più rimarchevole, sono gli stessi motivi per cui una critica frettolosa troverebbe nei testi dei difetti di base tali da non scommettere sulla sua qualità.
Le ragioni del gradimento che i testi tolkieniani continueranno a incontrare presso le generazioni future sono ben ripresi da F.M. Boschetto nel suo pregevole sito web personale, di cui una parte suggestiva è rappresentata dalla sezione che prende spunto dai temi tolkieniani per la didattica:
Le opere di Tolkien attingono a piene mani dal materiale tradizionale, antico e medievale per quanto riguarda le figure tipiche (l’eroe, il nero nemico…), le ambientazioni (le varie razze, il variopinto mondo di Arda) e le tematiche (una su tutte, l’epico scontro tra il bene ed il male); come spesso accade, il nostro autore non ha scoperto nulla di nuovo, ma è riuscito a colpire al cuore ed affascinare, intimorire, emozionare milioni di lettori, e questo grazie ad una mirabile sintesi di tutti gli elementi sopra elencati, alla continua proposta di immagini colorate, emozionanti, ora epiche, ora desolate, ma sempre dinamiche, ad un linguaggio ed un intreccio sempre efficacissimi. E soprattutto grazie alla minuziosa costruzione di un universo ricostruito con cura meticolosa in ogni dettaglio, e in effetti assolutamente verosimile, perché dietro i suoi simboli si nasconde una realtà che dura oltre e malgrado la storia: la lotta, senza tregua, fra il bene e il male. Per tutti questi motivi, “Lo Hobbit”, “Il Signore degli anelli” e il “Silmarillion” sono opere eccezionali, al di fuori del tempo. Sono romanzi che narrano avventure in luoghi remoti e terribili, con episodi di inesauribile allegria, segreti paurosi che si svelano a poco a poco, mostri crudeli, alberi che camminano, spettri, città d’argento e di diamante poco lontane da necropoli tenebrose in cui dimorano esseri che spaventano solo al nominarli, urti giganteschi di eserciti luminosi e oscuri. Nel 1980 lo scrittore e professore all’Università dell’Idaho Brian Attebery (1951) ha riconosciuto che « nessuna importante opera fantasy scritta dopo Tolkien è immune della sua influenza, e molti si sono semplicemente limitati ad imitare il suo stile e la sua materia narrativa».